A cura di Elisa Cocchi Psicologa e Psicoterapeuta dell’età evolutiva, coordinatrice clinica del Centro di Consulenza per la Famiglia

Fidiamoci dei bambini: la forza del sentirsi fragili ai tempi del coronavirus

“I bambini ci insegnano che la semplicità 

può essere colta solo nel rispetto della complessità” 

(E. Vanadia)

“Dottoressa ci aiuti… non ce la facciamo più … davvero… il tempo è sempre uguale e i bimbi non ci ascoltano. Non ci sono spazi dove poter sentirsi liberi. Ogni cosa è insieme e spesso i pretesti diventano modi in cui poter sfogare rabbie e nervosismi. Si discute e si arriva a sera insoddisfatti con l’impressione di non aver fatto nulla, di aver perso tempo… Le regole sono state invertite: Leonardo il mio bimbo più grande passa ore alla play station e al tablet e dal tablet alla tv. Non riusciamo a coordinare i compiti e spesso nelle videolezioni online, si collega a YouTube … come genitori siamo tanto stanchi. Sara, la piccola, ha crisi di rabbia. Non riusciamo più a dirle niente … è lei che bullizza noi!! Abbiamo pensato di portarli dai nonni per un po’, in un paese fuori dal comune dove risediamo. Ci aiuti, Cosa dobbiamo fare?”

Questa è una delle tante richieste che sono arrivate in questo tempo di isolamento forzato. Un tempo che ha cambiato faccia in questi 60 giorni: prima combattendo con la paura, poi cercando di adattarsi a nuovi equilibri e ora prolungando questo periodo di attesa che sta inglobando oltre al corpo anche lo spirito (inteso come “l’essenza attiva e vivificante, stimolante e ispirante presente in ognuno di noi” C.G.Jung).

Questa condizione di restrizione e isolamento ci costringe a confrontarci con nuove modalità di relazione, sia con noi stessi che con gli altri. La sospensione delle nostre routine quotidiane ha dato spazio a nuove dimensioni prima fra tutte quella del silenzio, sia esterno ma soprattutto quello interno, in momenti e spazi ristretti percepiti da una parte sforzati e dall’altra desiderati. Questa situazione ha completamente rovesciato i nostri riferimenti legati alla costruzione della nostra identità attraverso ruoli e funzioni che abbiamo svolto per lo più meccanicamente fino alla prima settimana del mese di marzo. Ogni professione, ogni funzione, ogni attività conosciuta e interiorizzata ha subito trasformazioni. Non abbiamo davanti un cammino ritmico e prevedibile. Nessun livello sembra essere risparmiato da questo cambiamento: concretezza e astrazione si intrecciano in giornate trascorse nell’identico, giornate che sembrano scorrere l’una uguale all’altra. In queste mattine dove in un attimo è sera, i nostri meccanismi di difesa vacillano e vengono messi in discussione, i pensieri sono alla ricerca di un controllo certo. In questo scenario le esperienze di vita si mescolano: ogni giorno incontriamo noi stessi e lì, dentro di noi, sentiamo la voce del nostro essere padre/madre che deve fornire protezione e accudimento e allo stesso tempo figli, bisognosi di cure e di rassicurazioni a nostra volta; dobbiamo essere il marito/la moglie dentro al ruolo che abbiamo da sempre incarnato e allo stesso tempo ci sentiamo e ci comportiamo come bambini confusi; siamo chiamati ad essere i professionisti che si reinventano un nuovo modo di lavorare, ma allo stesso tempo dobbiamo respingere l’dea di falliti che rischia di albergare in noi. Tutto questo in una circolarità che travolge e genera confusione. Molto spesso è questo ciò che aiuto a fare nelle videochiamate o nelle telefonate con i genitori che chiedono il mio aiuto: separare i diversi vissuti che noi come adulti stiamo vivendo e di cui siamo portatori. Siamo chiamati ad ascoltarci e a guardare dentro di noi per diventare consapevoli di ciò che agiamo su chi ci circonda.

La prospettiva, da cui guardiamo gli scenari del nostro vivere quotidiano e in cui siamo immersi, può fare la differenza: stare soli per qualcuno può essere motivo di sofferenza, per altri è motivo di insofferenza; la casa può essere il rifugio o prigione; la convivenza forzata può trasformarsi in riscoperta, per altri può essere una dura prova. C’è chi riscopre valori e dimensioni che aveva trascurato e chi si sente schiacciato dalla paura. C’è chi rispolvera il passato e chi sta nel presente analizzando i dati e c’è chi è già proiettato nel futuro. La maggior parte di noi teme l’incertezza.

Cosi, cosa è successo? Ogni genitore, ogni persona, ogni bambino, ogni adolescente, improvvisamente è stato privato del contenimento fornito dalle strutture esterne: siamo stati privati degli orari e degli spostamenti (che spesso sono a livello simbolico sostituti di strutture interne di riferimento che appunto ci forniscono certezze e controllo), privati di quelle che credevamo le nostre certezze che ci legittimavano in ruoli, che ci restituivano gratificazioni e controllo. Ora la quotidianità si riempie di pensieri nascosti e pesanti spesso non detti, di movimenti instabili e confusi, di ruoli e funzioni, che portano a comportamenti educativi e affettivi disordinati. Così quello che maggiormente mi trovo a dire ai genitori che mi chiamano è: “Capisco … è normale … sta capitando a molti!” perché appartiene a tutti questo senso di smarrimento, che genera situazioni familiari e personali al limite del controllo. In questi giorni di convivenza forzata, il rischio è che i limiti si allungano e i confini educativi si sfumano, così come accade nell’animo e nella mente di noi adulti.

Succede allora che tutto slitta in avanti: gli orari del risveglio, delle routines quotidiane (i pranzi, le cene, l’ora dell’addormentamento), lo sfasamento delle strutture scolastiche (che siano nidi o scuole dell’infanzia …) dovuta all’alternanza delle lezioni online o all’impossibilità di vedere i propri amici, o alle restrizioni nell’uscire all’aria aperta. Tutto questo mette a dura prova le capacità di regolazione emotiva e comportamentale dei più piccoli, perché da una parte rischia di caricare di autonomia (pensiamo alla gestione delle videolezioni online), ma dall’altra rischia di alimentare un’eccessiva dipendenza e il bisogno di tenere il controllo dalle figure genitoriali (presenza fisica, organizzazione della giornata …) finendo per non riuscire più a gestire la vicinanza e il distanziamento dagli adulti di riferimento.

Mi capita di ascoltare vissuti in cui i genitori mi raccontano che fin dal primo mattino cercano di tamponare crisi di rabbia anticipando ad esempio bisogni o sostituendosi a autonomie, ma poi basta un niente, una semplice domanda o richiesta del genitore che il bambino avverte come imposizione e scatena comportamenti oppositivi o pianti difficilmente consolabili. Questi comportamenti molto spesso sono espressioni di ansia e di smarrimento che chiedono un contenimento. Non sono semplicemente momenti di rabbia legati a passaggi evolutivi, ma soprattutto richieste di limite e di confini che in una situazione di “normalità” sarebbero legati a modelli collegati all’esperienza concreta (maestre/i, compagni e amici, sport…). L’assenza di attesa, di spazi intermedi che vengono riempiti di risposte anticipatorie e diventano quindi saturi perché fatti di “sì” o di concessioni, in realtà non si orientano a spegnere il conflitto, ma lasciano al bambino una sorta di regressione nella sua storia evolutiva e alimentano una simbiosi che accresce l’insoddisfazione personale e il disinvestimento nel bambino. La presenza cioè di piccoli obiettivi quotidiani e di regole oltre le quali non si può andare aiutano i bambini ad avere un ruolo, a sperimentare la frustrazione, a sentirsi protagonisti di piccoli cambiamenti interiori.

E se è vero che questo è un tempo che ci vede tutti coinvolti, è altrettanto vero che è importante ricordare che nel rapporto con i bambini (ma anche negli adolescenti), c’è una differenza fisiologica, un’asimmetria che vanno mantenuta: significa mantenere quel confine, quel limite che rassicurano perché capaci di contenere. I bambini ci insegnano che la semplicità può essere colta solo nel rispetto della complessità. Questo significa che dobbiamo essere noi adulti a comprendere i significati sottesi a certi comportamenti. Allora i comportamenti disadattivi dovremmo chiamarli proadattivi, perché ci danno informazioni importanti sul tipo di bisogno che i bambini (ma molto spesso anche noi adulti) non riescono a esprimere a parole e viene quindi manifestato anziché verbalizzato. Ciò che stiamo vivendo ha un impatto anche sui nostri bimbi che, anche se piccoli, osservano, sentono e comprendono. I bambini esprimono a loro modo un disagio: non riescono a esprimere a parole e razionalmente quello che provano. Loro riescono “a buttare fuori” in modo simbolico e mascherato. Cosa potremmo notare allora? L’aumento di capricci o comunque una maggior irritabilità, una propensione al pianto, comportamenti regressivi (abbandonando autonomie precedentemente conquistate), difficoltà di addormentamento o sonno disturbato, aumento dell’iperattività, essere giù di tono o spesso stanchi. Essere arrabbiati è più semplice che sentirsi tristi, perché dentro si percepisce una energia che apparentemente fa sentire più forti, ma dietro alla rabbia si nasconde il dispiacere e la tristezza e tutta la loro fragilità; questi comportamenti sono una richiesta. E’ molto difficile non reagire con punizioni, ma queste non aiutano ad essere efficaci perché non rispondono al bisogno che genera le crisi. Possono comparire crisi tragiche di pianto, ai nostri occhi insignificanti, ma che sono in realtà un pretesto per un disagio che non riescono a esprimere. A volte basta semplicemente dire loro che sappiamo che non è facile. Quando poi situazioni nuove rappresentano per loro compiti troppo difficili, molto spesso manifestano comportamenti di una fase evolutiva antecedente a quella raggiunta (pipì a letto, non mangiare da soli, dormire nel lettone …), ma sono spesso rincorse per riuscire a saltare più lontano. La notte poi può rappresentare la vera separazione dai genitori sentendosi soli ad affrontare le loro paure. Dare il limite e il confine a cui nelle righe precedenti accennavo, non significa rispondere con rimproveri o ricatti, ma fornire strumenti di rassicurazione e conforto. L’eccessiva attività potrebbe essere un modo tutto loro di far reagire i genitori magari impegnati nel lavoro a casa o percepiti preoccupati (i bambini preferiscono vederci arrabbiati piuttosto che tristi) oppure potrebbe essere un modo per buttare fuori l’energia in eccesso sia fisica che ansiogena. Mai bloccarli o interromperli, piuttosto incanalarla verso altro, magari un qualcosa, un gioco concesso che li aiuti a scaricare. Un capriccio, un’opposizione, una crisi di rabbia, un pianto eccessivo, un comportamento regressivo hanno un significato che porta con sé la necessità di un ascolto ma anche di un cambiamento. Non dobbiamo chiedere loro “perché fai così?”, non dobbiamo perché in quei momenti di sconforto e di rabbia sono loro ad aspettarsi soluzioni da noi e non il contrario. I bambini si devono sentire al sicuro e devono percepire la presenza di un adulto “soccorritore”, cioè che è al loro fianco. Non da nemico, ma da alleato. Non da chi gli para i colpi, ma da chi riesce a fornire gli strumenti per uscire dalle difficoltà. Anche noi dovremmo capirli bene, no? Anche noi siamo dentro a confusione, anche noi come loro stiamo toccando con mano l’ambivalenza. Le domande che mi hanno chiesto di affrontare in questo articolo sono state anche: Soffrono perché non vanno più all’asilo? Come fare per fargli passare il tempo? Come raccontargli del Coronavirus, dire loro la verità?

Nello stravolgimento che ha invaso le loro vite, è importante mantenere abitudini stabili, regole e limiti perché questo riduce il senso di incertezza e da sicurezza: dare una struttura alla giornata, mantenere riti particolari nella differenziazione dei giorni della settimana, rispettare orari, compiere quelle piccole routine legate all’autonomia (lavarsi, mettere a posto, aiutare in un compito quotidiano …). Non scordiamoci che il gioco è lo strumento privilegiato per affrontare compiti nuovi, ma anche per elaborare emozioni e stati d’animo interiori. Controllare il tempo trascorso davanti ai tablet, al computer, alla televisione, ai social, alla play … sono strumenti che si sono rivelati fondamentali soprattutto nel rapporto scuola famiglia ma anche nel contatto con il mondo esterno, ma non devono diventare il modo per occupare il tempo e sfuggire alla noia.  Dobbiamo dare loro ascolto, alimentare la condivisione, usare spesso parole come “ti capisco”, “è normale”, “insieme ce la faremo”. E’ importante informarli sulla realtà ma in modo semplice non attraverso le informazioni dei telegiornali o delle notizie che passano su internet. Le nostre devono essere verità alla loro portata, usando un linguaggio adeguato alla loro età, infondere fiducia e sottolineare aspetti positivi. 

La grande differenza fra gli adulti e i bambini è che nella frase che tanto ci siamo sentiti dire “Andrà tutto bene”, loro, i bambini, ci credono veramente. Se riusciamo a metterci al loro fianco, ci aiutano a tirare fuori la nostra parte più creativa e innocente. Jung diceva: “Siamo troppo preoccupati di educare la personalità dei bambini, da aver perso di vista che il primo luogo è l’educatore, il genitore e l’insegnante ad esempio, a dover educare e curare la propria personalità per svolgere il proprio ruolo con efficacia e in modo appropriato” (in Opere, Vol. XVII).

Le parole chiave sono: sintonizzazione, risonanza affettiva e supporto. Noi riusciamo a essere questo per loro se noi per primi ci sentiamo calmi e capaci di rassicurarli. Se sentiamo di non esserlo è importante chiedere aiuto.

Allora fermiamoci a riflettere: è vero! Improvvisamente hanno smesso di frequentare il nido, la scuola (dell’infanzia e primaria) e se da una parte non hanno più visto i loro compagni e le maestre, dall’altra hanno potuto “godere” (se la famiglia è a tutti gli effetti un luogo sicuro e non violento) 24 ore al giorno dei loro genitori dentro casa. Non c’è affetto che vale di più. Ma se la mamma lavora in smart working, con riduzione di orario a mezza giornata e il papà c’è concretamente ma non c’è realmente perché una porta li separa più dei soliti Km che settimanalmente li tenevano distanti; se abbiamo detto ai bambini che una cosa bella di questo periodo è poter stare insieme, ma non abbiamo detto loro che c’è “un tempo” per stare insieme anche adesso; se abbiamo consentito loro tempi, spazi, abitudini, libertà nuove, ma senza dire che alcune cose restano com’erano; se abbiamo cercato di affrontare ciò che per noi era terribile, ma non abbiamo esplicitato con parole semplici ciò che nei figli rimaneva invariato, la domanda che sorge spontanea è: chi ha il compito di salvaguardare la realtà e la fantasia dei bambini in modo rispettoso?

Scuola, insegnanti, genitori, adulti di riferimento, tutti noi siamo chiamati a cambiare, a creare una separazione fra dentro (ciò che proviamo e come ci sentiamo) e fuori (comportamenti che vediamo), siamo chiamati a lavorare su noi stessi per non far sentire i bimbi fragili e soli. Ma questo abbiamo visto non significa fare tutto quello che loro vogliono. E’ difficile riuscire a gestire la complessità che ci circonda, ma non siamo soli. E spesso i loro comportamenti ci mettono proprio di fronte a riflessioni importanti. Allora, dobbiamo ringraziarli i nostri bimbi per i loro segnali, per i loro sorrisi, i loro pianti, le loro rabbie e i loro capricci, perché ci permettono, come adulti di dire “Eccoci!”

Questo virus dalla corona brutta ci ha permesso di riflettere e soffermarsi sull’importanza della relazione come cardine per affrontare le difficoltà e per riscoprire risorse personali. I bambini ci stanno insegnando ad avere resilienza: la capacità di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. Non con il muro delle paure, ma con la flessibilità data dal gioco, da una attività creativa, dalla fantasia: tutte aree che stabiliscono un collegamento fra mondo esterno e mondo interno, sostituiscono il linguaggio convenzionale e rappresentano un canale privilegiato all’inconscio e a quell’innata onestà che caratterizza l’infanzia. Un’ambiente capace di fornire un adeguato supporto, permetterà al Vero sé del bambino di continuare a crescere.

Ecco perché lo stare in famiglia e l’interrompere le normali routine ha rappresentato per molti bambini un ritorno alla sicurezza, al controllo e alla serenità: perché mamma e papà erano con loro. Noi adulti siamo dentro a pensieri solitari che spesso accomunano il pensiero di molti. Vissuti come la rabbia, la paura, la tristezza, la preoccupazione, l’ansia, invadono la nostra mente e danno poco spazio alle energie positive e alla vitalità. Questo è il momento del riuscire a tenere insieme la complessità partendo dalla loro semplicità: stando loro accanto nella routine quotidiana, preservandola e curandola.

E quando i segnali compaiono, che siano di rabbia o di pianto, di opposizione o di capriccio, di regressione o di ostinazione, siamo chiamati a fermarci e a fare il punto. Siamo chiamati a rimodulare spazi e tempi, ma anche obiettivi e strategie, per ascoltare attivamente, trasformare e trasformarci.

Concludo con una riflessione che ho avuto modo di fare qualche giorno fa con una persona risultata positiva al CoronaVirus, una persona che ha guardato in faccia la morte e la paura. Mi ha detto “siamo chiamati a conviverci con questo Virus e io ho imparato sulla mia pelle a dare un grande significato alla comunicazione e alla relazione: quando ero in ospedale riuscivo a leggere le intenzioni, i pensieri, le richieste, le emozioni attraverso lo sguardo e gli occhi di chi mi circondava, perché le mascherine e i loro camici non mi permettevano di vedere altro. Per un bel po’ anche noi dovremo indossare queste mascherine”.

Siamo chiamati a spegnere la parola della logica e della razionalità, per iniziare ad accendere le candele dell’ascolto che ci permetteranno di leggere la Luce nello sguardo di chi ci sta accanto, primo fra tutto nello sguardo dei nostri figli.

Bibliografia:

Jung C.G. (1928), Energetica psichica, in Opere, vol. VIII, Torino, Bollati Boringhieri, 1976

Meoli F., Il counseling genitoriale per affrontare la quarantena, in Babele, 2020

Pagnacco A., Genitorialità co(n)- fusa?, in Babele, 2020

Vanadia E., L’isola che c’è, in Babele, 2020